(Antonella Buzzo) Don Pasquale De Rosa nei 40 anni di vita parrocchiale vive con passione la missione pastorale e le vicende dell’autonomia comunale.Vi partecipa attivamente dal 1913 - e non solo con il compito di tenere informata la popolazione che «la creatura non si è addormentata», espressione simpatica con la quale la rassicura riguardo l’iter della richiesta di autonomia durante un’omelia tenuta nel settembre del 1949 - ma ne è addirittura l’artefice. È convinto che, per storia e posizione geografica, Dugenta deve essere di nuovo Comune autonomo. Per questa causa scrive il suo libro «Dugenta negli antichi tempi ed al presente nella sua storia civile e religiosa. Ricordi e Speranze», dimenticato dalla popolazione e totalmente sconosciuto alla giovane generazione di dugentesi.
Questo libro nasce come impegno affidatogli da Mons. Lavitrano, suo maestro di Teologia Pastorale al Collegio Leoniano che, durante una lezione, invita i futuri parroci a scrivere la storia della loro parrocchia perché, informati della storia passata, possano farsi un’idea dell’ambiente in cui si trovano ad operare per conoscerne le tradizioni e le abitudini. Vantaggiosa, poi, per gli abitanti i quali vengono a conoscenza della storia e della vita religiosa del loro paese. Ma quegli appunti che ha annotato su un “quadernuccio” diventano un libro che deve servire per un “sacro intento”. Infatti, proprio nella prefazione lascia scritto che «la parrocchia è l’allargamento della famiglia, è il centro dal quale prende impulso la vita religiosa e civile di una popolazione».
E lui “prete sociale”, preso dalle vicende della vita civile, affida a questo libro uno scopo ben preciso che rivela nella dedica fatta nella festa di S. Andrea, nel 1951, ai Presidenti della Repubblica Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Glielo dedica «sperando», come lui stesso scrive, «che questo mio meschino omaggio Vi riesca gradito e sia preso in considerazione per lo scopo che si prefigge della autonomia comunale di Dugenta».
Ha come sottotitolo «Ricordi e speranze». Ricordo di un passato che definisce glorioso: «quanta bella storia sotto l’ombra di un campanile!» e speranza nei giovani e negli studenti di Dugenta, ai quali lo dedica come testamento di un povero parroco, perché su loro fa «affidamento pel raggiungimento del santo e sacro ideale dell’autonomia».
L’autonomia comunale è il motivo dominante di tutto il suo libro ed anche quando scrive degli emigrati negli Stati Uniti, che là hanno creato diverse colonie, ricorda come naturale ed insita è, in ogni abitante di Dugenta, anche se oltre oceano, l’aspirazione alla propria indipendenza comunale.
Il suo è un viaggio tra la storia antica - ricercata negli archivi, parrocchiale e diocesano, o in quanto è stato scritto da storici locali - e la storia a lui contemporanea. Lascia scritte belle pagine di vita locale, convinto che anche la storia di un piccolo paese è storia grande. Commovente è il racconto del periodo dell’occupazione tedesca, durante la seconda guerra mondiale, storia di un piccolo paese che vive pienamente la storia della Nazione. Racconto dal quale traspare tutta la tristezza e il dolore di quel momento. Ricorda come i soldati tedeschi, accampati alla Selvolella, alla notizia dell’armistizio diventano «feroci e crudeli, mettendo in atto il loro istinto selvaggio. Sfogarono tutto il loro odio contro la popolazione, la quale fu cacciata dalle case, cercando ricovero altrove. Distrussero tutto il patrimonio zootecnico, da veri predoni si fecero padroni di ogni cosa. Gli animali che non potevano trasportare con se l’uccisero a colpi di pistola alla mangiatoia, misero a ferro e fuoco tutto. Venivano in chiesa con la mitragliatrice. Avevano fatto del campanile un loro osservatorio. Piombarono improvvisamente di notte e di giorno, nella casa canonica, in chiesa, perché da spie avevano saputo che il parroco teneva nascosti in soffitta una trentina di giovani per non farli deportare, per cui questi sfuggì alla fucilazione e alla deportazione proprio per miracolo […] si nascose nei sotterranei dell’antico cimitero parrocchiale. […]. Fecero saltare in aria ponti, ed i binari della ferrovia sembravano apparecchi volanti. Sembrava un finimondo».
E tristezza e amarezza traspare anche dal ricordo della battaglia del Volturno che lascia distruzione, rovine e morte e le case abbattute dai colpi sparati da Squille. «Com’era commovente e dolorante vedere l’esodo della popolazione ad ogni grido allarmistico. Tutti fuggivano […], soltanto il parroco non volle mai lasciare il posto del dovere e sotto la raffica della mitragliatrice e dei bombardamenti portava alla sepoltura tanti poveri morti, lacerati nel corpo dalle schegge e condividendo coi superstiti i duri sacrifici di quei giorni tristi».
Nelle sue pagine si riconosce anche l’antico paese contadino che cresce di popolazione, negli anni del dopoguerra, fertilissimo e ricco di prodotti della terra, dove si coltivano cereali, frutta, uva, olivi, tabacco e barbabietole. Dove alle bellezze naturali si affianca il «carattere ospitale dei suoi abitanti».
Don Pasquale è una forte personalità: in nome della sua fede, altrettanto forte, e della sua formazione di “prete sociale”, riesce ad arrivare a tutti, alti prelati e uomini politici di tutte le tendenze perché convinto che l’autonomia non ha colore politico. Infatti, ancora nella sua omelia ricorda: «l’autonomia e l’indipendenza deve interessare ogni cittadino Dugentese. In questa faccenda così delicata non si dovrebbe far entrare politica e partito di sorta, ma tutti unirsi in un cuor solo ed anima sola per ottenere sì utile intento». Uomo dalla penna facile, con i piedi ben piantati in terra ma con lo sguardo sempre rivolto al cielo invoca persino S. Andrea, patrono di Dugenta, che interceda per la tanto desiderata autonomia. Nel suo libro lascia scritta una preghiera che recita così:
«O Patrono di Dugenta, seguita ad alzare la mano tua potente e benedici i tuoi protetti.
Aiutali a conseguire la loro libertà.
Ispira, o celeste patrono, tutte le autorità civili ogni iniziativa di bene a loro favore.
Fa che la libertà, l’autonomia tanto reclamata, tanto desiderata, sia al più presto splendida realtà.
Benedici tutto il tuo popolo, grandi e piccoli, che in Te e per Te uniti salgono all'altezza di ogni prosperità terrena e celeste, e spento ogni odio, ogni ideologia di partito con un’anima sola ed un cuore solo nella concordia degli animi possano iniziare al più presto la vita di libertà vera, degna di tutti i figli di Dio».
Antonella Buzzo
E lui “prete sociale”, preso dalle vicende della vita civile, affida a questo libro uno scopo ben preciso che rivela nella dedica fatta nella festa di S. Andrea, nel 1951, ai Presidenti della Repubblica Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Glielo dedica «sperando», come lui stesso scrive, «che questo mio meschino omaggio Vi riesca gradito e sia preso in considerazione per lo scopo che si prefigge della autonomia comunale di Dugenta».
Ha come sottotitolo «Ricordi e speranze». Ricordo di un passato che definisce glorioso: «quanta bella storia sotto l’ombra di un campanile!» e speranza nei giovani e negli studenti di Dugenta, ai quali lo dedica come testamento di un povero parroco, perché su loro fa «affidamento pel raggiungimento del santo e sacro ideale dell’autonomia».
L’autonomia comunale è il motivo dominante di tutto il suo libro ed anche quando scrive degli emigrati negli Stati Uniti, che là hanno creato diverse colonie, ricorda come naturale ed insita è, in ogni abitante di Dugenta, anche se oltre oceano, l’aspirazione alla propria indipendenza comunale.
Il suo è un viaggio tra la storia antica - ricercata negli archivi, parrocchiale e diocesano, o in quanto è stato scritto da storici locali - e la storia a lui contemporanea. Lascia scritte belle pagine di vita locale, convinto che anche la storia di un piccolo paese è storia grande. Commovente è il racconto del periodo dell’occupazione tedesca, durante la seconda guerra mondiale, storia di un piccolo paese che vive pienamente la storia della Nazione. Racconto dal quale traspare tutta la tristezza e il dolore di quel momento. Ricorda come i soldati tedeschi, accampati alla Selvolella, alla notizia dell’armistizio diventano «feroci e crudeli, mettendo in atto il loro istinto selvaggio. Sfogarono tutto il loro odio contro la popolazione, la quale fu cacciata dalle case, cercando ricovero altrove. Distrussero tutto il patrimonio zootecnico, da veri predoni si fecero padroni di ogni cosa. Gli animali che non potevano trasportare con se l’uccisero a colpi di pistola alla mangiatoia, misero a ferro e fuoco tutto. Venivano in chiesa con la mitragliatrice. Avevano fatto del campanile un loro osservatorio. Piombarono improvvisamente di notte e di giorno, nella casa canonica, in chiesa, perché da spie avevano saputo che il parroco teneva nascosti in soffitta una trentina di giovani per non farli deportare, per cui questi sfuggì alla fucilazione e alla deportazione proprio per miracolo […] si nascose nei sotterranei dell’antico cimitero parrocchiale. […]. Fecero saltare in aria ponti, ed i binari della ferrovia sembravano apparecchi volanti. Sembrava un finimondo».
E tristezza e amarezza traspare anche dal ricordo della battaglia del Volturno che lascia distruzione, rovine e morte e le case abbattute dai colpi sparati da Squille. «Com’era commovente e dolorante vedere l’esodo della popolazione ad ogni grido allarmistico. Tutti fuggivano […], soltanto il parroco non volle mai lasciare il posto del dovere e sotto la raffica della mitragliatrice e dei bombardamenti portava alla sepoltura tanti poveri morti, lacerati nel corpo dalle schegge e condividendo coi superstiti i duri sacrifici di quei giorni tristi».
Nelle sue pagine si riconosce anche l’antico paese contadino che cresce di popolazione, negli anni del dopoguerra, fertilissimo e ricco di prodotti della terra, dove si coltivano cereali, frutta, uva, olivi, tabacco e barbabietole. Dove alle bellezze naturali si affianca il «carattere ospitale dei suoi abitanti».
Don Pasquale è una forte personalità: in nome della sua fede, altrettanto forte, e della sua formazione di “prete sociale”, riesce ad arrivare a tutti, alti prelati e uomini politici di tutte le tendenze perché convinto che l’autonomia non ha colore politico. Infatti, ancora nella sua omelia ricorda: «l’autonomia e l’indipendenza deve interessare ogni cittadino Dugentese. In questa faccenda così delicata non si dovrebbe far entrare politica e partito di sorta, ma tutti unirsi in un cuor solo ed anima sola per ottenere sì utile intento». Uomo dalla penna facile, con i piedi ben piantati in terra ma con lo sguardo sempre rivolto al cielo invoca persino S. Andrea, patrono di Dugenta, che interceda per la tanto desiderata autonomia. Nel suo libro lascia scritta una preghiera che recita così:
«O Patrono di Dugenta, seguita ad alzare la mano tua potente e benedici i tuoi protetti.
Aiutali a conseguire la loro libertà.
Ispira, o celeste patrono, tutte le autorità civili ogni iniziativa di bene a loro favore.
Fa che la libertà, l’autonomia tanto reclamata, tanto desiderata, sia al più presto splendida realtà.
Benedici tutto il tuo popolo, grandi e piccoli, che in Te e per Te uniti salgono all'altezza di ogni prosperità terrena e celeste, e spento ogni odio, ogni ideologia di partito con un’anima sola ed un cuore solo nella concordia degli animi possano iniziare al più presto la vita di libertà vera, degna di tutti i figli di Dio».
Antonella Buzzo