(Luisa Renzi) Dai cassetti della memoria: «Catarì, ce sta a Signurina?... Putimm saglie? No!!!… Quan... putimm turnà? Catarì,… Catarììì, addò è ghiuta? Chella, muglierema, nun se sente bona, adda venì subbeto a casa, addò a vaco a chiamà?»«Signurì, sonc i quatt e matine, vuie ggià aite ascì… fa stu fridd...
«Ninù, e tu che faie ncopp u barcone a chest’ora a, spann e pann? e ninn stann buon?»
Gli echi di queste parole e i suoni di queste voci si disperdono nell'aria del cortile dove io bambina abitavo, quasi dirimpettaia. Quel balcone sempre spalancato, le tende svolazzanti al vento, e una muta preghiera negli occhi di chi, nell'arrivare, guardava lassù in alto (speramm ca ce sta).
«Ninù, e tu che faie ncopp u barcone a chest’ora a, spann e pann? e ninn stann buon?»
Gli echi di queste parole e i suoni di queste voci si disperdono nell'aria del cortile dove io bambina abitavo, quasi dirimpettaia. Quel balcone sempre spalancato, le tende svolazzanti al vento, e una muta preghiera negli occhi di chi, nell'arrivare, guardava lassù in alto (speramm ca ce sta).
Rieccola..., al mio fianco, sulla soglia della camera dove mia figlia, nella culla, con le braccia protese, per la prima volta la chiama... «Nenna».
Gli occhi le brillano, il volto si illumina in un sorriso beato… «Lui’.., m’ha chiamato, mi ha detto: Nenna».
Nenna... ho tanta paura..., aspetto un altro figlio, non vorrei avere un altro cesareo, è stato terribile in quell'ospedale».
«Nunt é preoccupà bella i mammarella toia, ie taggio fatto nascere, vuie me site tutti quanti figli, stamme a sentì... tu si na piezza e guagliona..., chistu criatur o facimm nasce normale. Ca vuò fa... chell nun é manc colpa de mieric..., poveri guagliuni..., addò a ponn fa a pratica... mo? Chi ce po nsignà comme se fa nu capovolgimento..., quanno o criaturo se presenta podalico (co culetto)? Tu statti calma e serena. Peccato che io non ho più tanta forza, se no in ospedale non ti ci porterei proprio. Fammi vedere sta bella pancia; accussi te dico u criaturo come sta. Ovvì.., ca... ce stanno i piedini, addò tu te sient e vuttà. Ca le manine... addò te sient e movere, e... qua sotto la testa. Sta tutto a posto dobbiamo solo aspettare e tu non ti spaventare se hai dei dolori, sono solo di preparazione».
Sono le due di una notte di luglio calda e afosa, Lei è con me in ospedale.
Con molta gentilezza le viene offerto un camice dagli infermieri ai quali si è presentata. Le ore trascorrono lente in compagnia di altre donne che come me devono partorire. Lei con tutte si prodiga, le incoraggia le rassicura.
Quando al cambio del turno, il mattino seguente, arriva una sua amica e collega, è felice, perché il medico responsabile del reparto era deciso a praticarmi il cesareo.
Tutte e due, con il consenso del primario, mi esortano ad impegnarmi con tutte le forze a far nascere questo bimbo con il loro aiuto mentre si sta già preparando la sala operatoria.
«Nennè mo e fà a brava… nunt’e fa sentere. Fallu i a preparà u duttore, ca nuie, ce facimm na bella sorpresa».
Ed eccolo mio figlio, stretto dalle sue forti mani, uscire come una valanga dal mio corpo... me lo poggia sulla pancia e, con fierezza e semplicità, dall’alto dei suoi 72 anni mi dice «Ce l’abbiamo fatta. Ho mantenuto la mia promessa».
Questo è l’omaggio ad una donna dotata di una personalità forte, indipendente, libera.
Arrivata a Dugenta nel ben lontano 1947, per esercitare la sua professione di ostetrica comunale, Maria Nasti, di origini napoletane con studi di ostetricia a Roma, in questo giovane Paese arriva dopo una precedente esperienza a Solopaca.
Piccola, minuta, da sempre bianca di capelli, da tutti conosciuta come “A Signurina”, ha dedicato e speso tutta la sua esistenza al proprio lavoro, con grande impegno e spirito di abnegazione.
Di Dugenta ha fatto proprie le radici e condiviso le aspettative di crescita, e a Dugenta è rimasta anche se, ormai in pensione, avrebbe potuto ricongiungersi ai suoi familiari. Perché è qui che lei riconosceva la propria identità, è questo paese che sentiva come famiglia, è qui che si sentiva a casa. Ci considerava tutti figli suoi perché ci aveva aiutato a venire al mondo e tutta la comunità rappresentava per lei il frutto delle sue fatiche, la sua…eredità. Chi non la ricorda... con il sole, il freddo, la pioggia, a tutte le ore del giorno e della notte, a piedi, la piccola valigetta in mano, con il suo passo svelto e leggero recarsi dove c’era bisogno. La sigaretta sempre accesa, la caffettiera sempre pronta, per trascorrere le lunghe notti di veglia nelle case di tutti i Dugentesi. Arguta, spiritosa, ironica, sensibile, a volte anche sarcastica. Capace di totale disponibilità ma anche di violenti scatti d’ira che la portavano a chiudersi e, a isolarsi. Divoratrice di libri, curiosa e aperta alle novità, dotata di grande spirito critico. Aveva, nel modo di porsi o di raccontare, quella gestualità e quelle inflessioni di napoletanità che alcune volte mi ricordavano Totò. Grande appassionata di enigmistica e romanzi gialli, sempre dalla parte dei più deboli mi diceva «Quando guardo i film western io parteggio sempre per gli Indiani». È stata lei a farmi leggere per la prima volta Hemingway. Le donne la ricordano con grande affetto. Tutte hanno un episodio che la riguarda, perché si sono sentite sicure, coccolate, accudite e protette dalla sua presenza, mentre affrontavano il momento più difficile e più bello della loro vita, la nascita di un figlio. E molte si rammaricano di non poterle nemmeno portare un fiore al cimitero.
Nonostante la sua prodigalità sia andata oltre l’esercizio professionale, nonostante il dono di sé, la disponibilità totale, poche sono state le persone che hanno alleviato solitudine e sofferenza negli ultimi anni della sua vita. Ha dovuto subire il ricovero in un Ospizio in provincia di Avellino. È morta a Caserta, in ospedale, un freddo ed infausto giorno di Febbraio del 1992.
***
Voglio ringraziare Nunziatina, Immacolata, Caterina, la signora Ermelinda, la mia madrina Assuntina, perché mi hanno fatto conoscere episodi inediti della sua vita e, infine, Ersilia Di Cerbo che, come me, ha voluto portare un suo personale ricordo che vi riporto.
Luisa Renzi
Gli occhi le brillano, il volto si illumina in un sorriso beato… «Lui’.., m’ha chiamato, mi ha detto: Nenna».
Nenna... ho tanta paura..., aspetto un altro figlio, non vorrei avere un altro cesareo, è stato terribile in quell'ospedale».
«Nunt é preoccupà bella i mammarella toia, ie taggio fatto nascere, vuie me site tutti quanti figli, stamme a sentì... tu si na piezza e guagliona..., chistu criatur o facimm nasce normale. Ca vuò fa... chell nun é manc colpa de mieric..., poveri guagliuni..., addò a ponn fa a pratica... mo? Chi ce po nsignà comme se fa nu capovolgimento..., quanno o criaturo se presenta podalico (co culetto)? Tu statti calma e serena. Peccato che io non ho più tanta forza, se no in ospedale non ti ci porterei proprio. Fammi vedere sta bella pancia; accussi te dico u criaturo come sta. Ovvì.., ca... ce stanno i piedini, addò tu te sient e vuttà. Ca le manine... addò te sient e movere, e... qua sotto la testa. Sta tutto a posto dobbiamo solo aspettare e tu non ti spaventare se hai dei dolori, sono solo di preparazione».
Sono le due di una notte di luglio calda e afosa, Lei è con me in ospedale.
Con molta gentilezza le viene offerto un camice dagli infermieri ai quali si è presentata. Le ore trascorrono lente in compagnia di altre donne che come me devono partorire. Lei con tutte si prodiga, le incoraggia le rassicura.
Quando al cambio del turno, il mattino seguente, arriva una sua amica e collega, è felice, perché il medico responsabile del reparto era deciso a praticarmi il cesareo.
Tutte e due, con il consenso del primario, mi esortano ad impegnarmi con tutte le forze a far nascere questo bimbo con il loro aiuto mentre si sta già preparando la sala operatoria.
«Nennè mo e fà a brava… nunt’e fa sentere. Fallu i a preparà u duttore, ca nuie, ce facimm na bella sorpresa».
Ed eccolo mio figlio, stretto dalle sue forti mani, uscire come una valanga dal mio corpo... me lo poggia sulla pancia e, con fierezza e semplicità, dall’alto dei suoi 72 anni mi dice «Ce l’abbiamo fatta. Ho mantenuto la mia promessa».
Questo è l’omaggio ad una donna dotata di una personalità forte, indipendente, libera.
Arrivata a Dugenta nel ben lontano 1947, per esercitare la sua professione di ostetrica comunale, Maria Nasti, di origini napoletane con studi di ostetricia a Roma, in questo giovane Paese arriva dopo una precedente esperienza a Solopaca.
Piccola, minuta, da sempre bianca di capelli, da tutti conosciuta come “A Signurina”, ha dedicato e speso tutta la sua esistenza al proprio lavoro, con grande impegno e spirito di abnegazione.
Di Dugenta ha fatto proprie le radici e condiviso le aspettative di crescita, e a Dugenta è rimasta anche se, ormai in pensione, avrebbe potuto ricongiungersi ai suoi familiari. Perché è qui che lei riconosceva la propria identità, è questo paese che sentiva come famiglia, è qui che si sentiva a casa. Ci considerava tutti figli suoi perché ci aveva aiutato a venire al mondo e tutta la comunità rappresentava per lei il frutto delle sue fatiche, la sua…eredità. Chi non la ricorda... con il sole, il freddo, la pioggia, a tutte le ore del giorno e della notte, a piedi, la piccola valigetta in mano, con il suo passo svelto e leggero recarsi dove c’era bisogno. La sigaretta sempre accesa, la caffettiera sempre pronta, per trascorrere le lunghe notti di veglia nelle case di tutti i Dugentesi. Arguta, spiritosa, ironica, sensibile, a volte anche sarcastica. Capace di totale disponibilità ma anche di violenti scatti d’ira che la portavano a chiudersi e, a isolarsi. Divoratrice di libri, curiosa e aperta alle novità, dotata di grande spirito critico. Aveva, nel modo di porsi o di raccontare, quella gestualità e quelle inflessioni di napoletanità che alcune volte mi ricordavano Totò. Grande appassionata di enigmistica e romanzi gialli, sempre dalla parte dei più deboli mi diceva «Quando guardo i film western io parteggio sempre per gli Indiani». È stata lei a farmi leggere per la prima volta Hemingway. Le donne la ricordano con grande affetto. Tutte hanno un episodio che la riguarda, perché si sono sentite sicure, coccolate, accudite e protette dalla sua presenza, mentre affrontavano il momento più difficile e più bello della loro vita, la nascita di un figlio. E molte si rammaricano di non poterle nemmeno portare un fiore al cimitero.
Nonostante la sua prodigalità sia andata oltre l’esercizio professionale, nonostante il dono di sé, la disponibilità totale, poche sono state le persone che hanno alleviato solitudine e sofferenza negli ultimi anni della sua vita. Ha dovuto subire il ricovero in un Ospizio in provincia di Avellino. È morta a Caserta, in ospedale, un freddo ed infausto giorno di Febbraio del 1992.
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Voglio ringraziare Nunziatina, Immacolata, Caterina, la signora Ermelinda, la mia madrina Assuntina, perché mi hanno fatto conoscere episodi inediti della sua vita e, infine, Ersilia Di Cerbo che, come me, ha voluto portare un suo personale ricordo che vi riporto.
Luisa Renzi