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S. Pancrazio, Biancano e il giovane Aragosa
Frequentava ancora le scuole elementari quando, alienandosi talvolta dalla compagnia dei suoi coetanei, il piccolo Giuseppe si ritirava in disparte e giocava a modellare la creta, raccolta sugli argini del ruscello che scorreva ai margini del paese, sotto il “Ponte di Bella”. In un solo punto preciso del piccolo corso d’acqua, che, alimentandosi delle sorgenti frequenti nelle colline circostanti, convogliava le sue acque nel Volturno, la siepe presentava strati di argilla dal colore tipico che andava dal marrone chiaro al rosso bruno. I ragazzi ne raccoglievano buone quantità e mescolandola con l’acqua godevano ad imbrattarsi le mani con il suo impasto morbido e setoso. Ma Giuseppe sapeva ricavare da essa piccoli oggetti, mini forme umane, fiori dai petali scuri. Per la sua famiglia e il vicinato modellava bugie da candela, fornite anche di manico per la presa, che venivano usate normalmente, essendo il piccolo paese ancora sprovvisto di elettricità. Il lume a petrolio, dall’odore pungente, serviva per l’illuminazione notturna delle stanze a piano terra, mentre gli spostamenti notturni lungo il resto della casa, come le camere, erano illuminati dalle più innocue steariche.
Biancano, il paesino frazione di Limatola, in cui Giuseppe trascorse i primi anni di vita, era allora realmente isolato. La strada che conduceva a Limatola era sterrata, grosse buche la lastricavano. Durante l’inverno queste erano piene di acqua e fango e nelle stagioni secche mostravano tutta la loro profondità, scoraggiando anche il passaggio dell’unico mezzo di trasporto allora esistente, il carro trainato dai buoi. La bicicletta e il calesse erano posseduti solo da alcune famiglie più agiate.
La strada che oggi da Biancano, costeggiando i Monti Tifatini, porta al ponte Cirio e quindi a Caserta, era solo un tracciato sulla carta. Si dice che gli americani, durante la seconda guerra mondiale, l’avessero cercata invano, seguendo le mappe, per raggiungere le loro postazioni. Gli insegnanti destinati alle locali pluriclassi erano costretti a risiedere sul posto, riveriti e assistiti dagli abitanti come dei benefattori e portatori di vivacità in un luogo abbandonato e dimenticato, segnato fortemente dal bombardamenti di guerra. Mons. Salvatore Carrese, parroco del posto in quegli anni, nel suo testamento spirituale dice che aveva trovato ivi “una popolazione quasi primitiva, priva di ogni struttura sociale”. In questo luogo senza stimoli o modelli da seguire, senza alcuna esperienza di uomini e cose, senza giocattoli che fossero diversi da quelli costruiti di proprio pugno, dalle mani del piccolo Giuseppe nascevano oggetti e forme. La natura aveva messo in lui un seme che forse andava coltivato. Ma sulla sua strada egli non incontrò un piccolo Lorenzo dei Medici, né un altro pigmalione, ma solo un severo e realistico genitore, che gli ricordava spesso che artisti e pescatori avevano sempre fatto la fame.
Non pertanto desistette. Quando dal seminario, dove andò a undici anni per seguire gli studi classici, faceva rientro a casa durante le vacanze estive, tornava alla sua passione rimasta inespressa. Forgiò nel tufo, una statua di Gesù alta circa sessanta centimetri, tanto espressiva e somigliante alle icone tradizionali che il vicinato le si inchinava davanti, segnandosi col segno della croce. Poi la testa di un fauno, forse ricordando che Michelangelo sedusse con quella sua prima espressione artistica colui che lo sostenne e gli diede modo di diventare l’irraggiungibile e irripetibile genio.
La strada che oggi da Biancano, costeggiando i Monti Tifatini, porta al ponte Cirio e quindi a Caserta, era solo un tracciato sulla carta. Si dice che gli americani, durante la seconda guerra mondiale, l’avessero cercata invano, seguendo le mappe, per raggiungere le loro postazioni. Gli insegnanti destinati alle locali pluriclassi erano costretti a risiedere sul posto, riveriti e assistiti dagli abitanti come dei benefattori e portatori di vivacità in un luogo abbandonato e dimenticato, segnato fortemente dal bombardamenti di guerra. Mons. Salvatore Carrese, parroco del posto in quegli anni, nel suo testamento spirituale dice che aveva trovato ivi “una popolazione quasi primitiva, priva di ogni struttura sociale”. In questo luogo senza stimoli o modelli da seguire, senza alcuna esperienza di uomini e cose, senza giocattoli che fossero diversi da quelli costruiti di proprio pugno, dalle mani del piccolo Giuseppe nascevano oggetti e forme. La natura aveva messo in lui un seme che forse andava coltivato. Ma sulla sua strada egli non incontrò un piccolo Lorenzo dei Medici, né un altro pigmalione, ma solo un severo e realistico genitore, che gli ricordava spesso che artisti e pescatori avevano sempre fatto la fame.
Non pertanto desistette. Quando dal seminario, dove andò a undici anni per seguire gli studi classici, faceva rientro a casa durante le vacanze estive, tornava alla sua passione rimasta inespressa. Forgiò nel tufo, una statua di Gesù alta circa sessanta centimetri, tanto espressiva e somigliante alle icone tradizionali che il vicinato le si inchinava davanti, segnandosi col segno della croce. Poi la testa di un fauno, forse ricordando che Michelangelo sedusse con quella sua prima espressione artistica colui che lo sostenne e gli diede modo di diventare l’irraggiungibile e irripetibile genio.
A diciannove anni Giuseppe realizzò il suo ultimo lavoro scultoreo, unico rimasto della sua forzatamente limitata produzione, il San Pancrazio, che ancora si erge nella piazza di Biancano, alla sinistra dell’ingresso della chiesa, dove il signor Giovanni Di Fonzo lo ricollocò, dopo un periodo di abbandono in un garage, essendo stato involontariamente frantumato da un mezzo meccanico. Per preservarlo dalle intemperie attualmente è stato ricoperto, a cura dello stesso gentile compaesano, con vernice idrorepellente.
Col calesse trainato dalla giumenta di famiglia, quel padre, che “temeva” le arti, si recò a S. Agata dei Goti, dove aveva già ordinato, tramite conoscenti, un blocco di tufo. Lo collocò sotto un capannone, dove erano riposti di solito il fieno e gli attrezzi per il lavoro dei campi. Il paziente zio Francesco, faceva da modello e posava intere mattinate per il giovane scultore, il quale, memore del monito michelangiolesco che la vera scultura è “quella per via di levare” e non di mettere, vedeva già nel tufo la forma che voleva ottenere. Finito il lavoro della giornata, copriva con un telo il lavoro incompiuto. Dal tufo uscirono una testa piena di riccioli, che ricordavano quelli del Davide di piazza della Signoria, forme corporee robuste e ben tornite, sguardo fiero e mite nello stesso tempo, braccio con evidenti turgide vene reggenti la fiaccola della fede, abito di guerriero romano.
Nel giro di alcuni mesi, il tempo di una vacanza estiva, la statua era pronta, stuccata e verniciata. Non era di marmo ma fatta di un materiale povero, come poveri erano i tempi.
Bisognava ora donarla alla comunità e così, dopo una solenne benedizione e un intenso discorso di elogio dell’amico Francesco D’Agostino, la statua divenne S. Pancrazio, martire della chiesa di Roma, decapitato per conto di Diocleziano, il quale si era adoperato, prima di mandarlo a morte, ammirandone “l’avvenente giovanile bellezza”, di farlo desistere dal Cristianesimo. In un rosso tramonto del 304 d. C. sulla via Aurelia cadde la giovane testa e di lui rimase una lapide con la scritta che ne ricordava il martirio.
Non è dato sapere, però, se la statua rappresentasse, nella mente del suo autore, l’altro S. Pancrazio, pure di epoca romana, venerato nel torinese, che fece parte della mitica Legione Tebea, la quale operava nel III secolo d.C. tra Colonia e il versante settentrionale delle Alpi, fatto uccidere per decimazione dall’imperatore Massimiano per essersi rifiutato, insieme con altri combattenti, di trucidare una popolazione del Vallese convertitasi al Cristianesimo. L’abito da guerriero fa propendere verso questa seconda ipotesi.
Il giovane Giuseppe si cimentò anche nella pittura, partecipando a mostre collettive in provincia di Napoli e vendendo anche qualche quadro. Soggetto preferito, la natura, unica bellezza che neanche i folti bombardamenti tedeschi erano riusciti ad offuscare: la luna che fa capolino tra i monti, paesaggi innevati, altri aspetti riposanti del creato. Fece anche qualche tentativo di pittura più moderno con mucche a riposo, e infine un ritratto della propria moglie naturalmente molto idealizzato.
Col calesse trainato dalla giumenta di famiglia, quel padre, che “temeva” le arti, si recò a S. Agata dei Goti, dove aveva già ordinato, tramite conoscenti, un blocco di tufo. Lo collocò sotto un capannone, dove erano riposti di solito il fieno e gli attrezzi per il lavoro dei campi. Il paziente zio Francesco, faceva da modello e posava intere mattinate per il giovane scultore, il quale, memore del monito michelangiolesco che la vera scultura è “quella per via di levare” e non di mettere, vedeva già nel tufo la forma che voleva ottenere. Finito il lavoro della giornata, copriva con un telo il lavoro incompiuto. Dal tufo uscirono una testa piena di riccioli, che ricordavano quelli del Davide di piazza della Signoria, forme corporee robuste e ben tornite, sguardo fiero e mite nello stesso tempo, braccio con evidenti turgide vene reggenti la fiaccola della fede, abito di guerriero romano.
Nel giro di alcuni mesi, il tempo di una vacanza estiva, la statua era pronta, stuccata e verniciata. Non era di marmo ma fatta di un materiale povero, come poveri erano i tempi.
Bisognava ora donarla alla comunità e così, dopo una solenne benedizione e un intenso discorso di elogio dell’amico Francesco D’Agostino, la statua divenne S. Pancrazio, martire della chiesa di Roma, decapitato per conto di Diocleziano, il quale si era adoperato, prima di mandarlo a morte, ammirandone “l’avvenente giovanile bellezza”, di farlo desistere dal Cristianesimo. In un rosso tramonto del 304 d. C. sulla via Aurelia cadde la giovane testa e di lui rimase una lapide con la scritta che ne ricordava il martirio.
Non è dato sapere, però, se la statua rappresentasse, nella mente del suo autore, l’altro S. Pancrazio, pure di epoca romana, venerato nel torinese, che fece parte della mitica Legione Tebea, la quale operava nel III secolo d.C. tra Colonia e il versante settentrionale delle Alpi, fatto uccidere per decimazione dall’imperatore Massimiano per essersi rifiutato, insieme con altri combattenti, di trucidare una popolazione del Vallese convertitasi al Cristianesimo. L’abito da guerriero fa propendere verso questa seconda ipotesi.
Il giovane Giuseppe si cimentò anche nella pittura, partecipando a mostre collettive in provincia di Napoli e vendendo anche qualche quadro. Soggetto preferito, la natura, unica bellezza che neanche i folti bombardamenti tedeschi erano riusciti ad offuscare: la luna che fa capolino tra i monti, paesaggi innevati, altri aspetti riposanti del creato. Fece anche qualche tentativo di pittura più moderno con mucche a riposo, e infine un ritratto della propria moglie naturalmente molto idealizzato.
La necessità di procurarsi uno stipendio che gli garantisse una vita agiata e l’aver preso moglie -si sa che le donne, come sosteneva Boccaccio nella famosa novella Calandrino e l’elitropia, fanno perdere le virtù anche alle pietre-, bloccarono la sua vena artistica in favore di attività più concrete e remunerative, che non gli negarono comunque la possibilità di far emergere altre virtù personali.
Lidia Di Lorenzo
Lidia Di Lorenzo