(Sergio De Fortuna) Dal Volturno al Taburno e da Terra di Lavoro alla Provincia di Benevento è il titolo di questo nostro primo evento per la commemorazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia e della nascita della Provincia di Benevento. Con questi toponimi geografici e politico-amministrativi, abbiamo voluto racchiudere e contestualizzare una serie di accadimenti, fatti ed eventi che hanno interessato il nostro territorio, e tutte le Terre dei Gambacorta, in relazione all’epopea garibaldina, alla nascita del nuovo Regno, alla sua strutturazione politica amministrativa, con i cambiamenti che questo sconvolgimento epocale comportò e soprattutto quelli che non realizzò come l’emancipazione sociale ed economica delle masse contadine. Fallimento che fu alla base dei due fenomeni post-unitari che caratterizzarono il Meridione: il brigantaggio che abbiamo voluto simboleggiare con il richiamo al Taburno, il cui massiccio è stato teatro di quella lotta, e l’emigrazione di cui queste terre sono state protagoniste. (Con tutte le problematiche che ciò comportò, sconvolgendo vecchi assetti e favorendone di nuovi sia a livello politico, sia a livello sociale ed economico Cambiamenti che spesso si presentarono o furono visti sotto forma di conservazione e sopruso).
Il nostro lavoro vuole essere un racconto di quei fatti ed una ricostruzione dell’ambiente e dell’atmosfera in cui essi si svolsero. Narrazione che avviene attraverso documenti dell’epoca, con il loro linguaggio apparentemente distaccato e burocratico, ma che è comunque in qualche modo sempre partecipe degli eventi. Essi parlano di quel tempo e di quelle vicende umane, spesso tristi, a volte pregevoli, altre volte ancora meschine, ma che ci appartengono tutte. I documenti presentati stasera sono in gran parte inediti e si trovano conservati negli Archivi di Stato di Benevento e di Caserta, altri invece sono stati già pubblicati sia su riviste specializzate sia su di una benemerita rivista locale, che tanto ha contribuito alla riscoperta della nostra storia. Li offriamo a voi, alla vostra curiosità. Li abbiamo trascritti con mente libera da tesi precostituite e non ne proponiamo letture od analisi preconcette; non ne abbiamo le competenze e non è questo il nostro intendimento. Se essi susciteranno in qualcuno di voi la voglia di conoscenza e di approfondimento, la voglia cioè di capire, e questo qualcuno lo farà, allora il nostro lavoro avrà prodotto un piccolo frutto.
Tutto comincia con lo sbarco dei garibaldini a Marsala l’11 maggio 1860. Il 31 maggio capitola Palermo: la Sicilia è in mano a Garibaldi. Francesco ll tenta di recuperare consensi e sostegno in extremis: il 25 giugno concede la costituzione e forma un governo costituzionale presieduto da Antonio Spinelli con ministro dell’interno Liborio Romano. Personaggio, quest’ultimo, dalle mille sfaccettature: ministro borbonico, verrà poi confermato nella carica dallo stesso Garibaldi al suo arrivo a Napoli.
Il 5 luglio Liborio Romano istituisce la Guardia Nazionale, trasformando la vecchia Guardia Urbana. A Frasso, 20 giorni dopo, il 25 luglio nasce la G.N.; ne fa fede il verbale della sua costituzione da noi ritrovato. La datazione conferma che si tratta di un’istituzione borbonica e che la Campania è ancora sotto il controllo dell’esercito di Francesco II. Nel leggerlo però non possiamo non provare un senso di stupore: tra i nomi dei componenti vi è quello di un noto dissidente, di un liberale antiborbonico che per queste sue idee ha patito persecuzione e carcere: si tratta dell’avv. Cosmo Gisondi, liberale, possidente e padre di sette figli. È come se nella G.N. americana, dopo l’11 settembre fosse stato arruolato un noto simpatizzante di Al-Quaida, per giunta già condannato e imprigionato.
Nasce qui il primo elemento di riflessione: com’è possibile che un simile personaggio si ritrovi in una struttura destinata a supportare il regime borbonico, da lui avversato e dal quale è stato perseguitato, proprio nel momento in cui tale regime sta clamorosamente disgregandosi e la coerenza ai suoi ideali potrebbe invece, in un imminente futuro, procurargli solo vantaggi?E di che tendenze politiche sono gli altri componenti della G.N. di Frasso? Che rapporti c’erano tra Cosmo Gisondi e gli ambienti liberali napoletani? Non lo sappiamo, ma sappiamo che la G.N. di Frasso e quelle di tutti i territori poi controllati dai garibaldini passarono al loro fianco, ma forse non fu una questione di opportunismo politico: forse c’era un disegno dietro, elaborato da Liborio Romano, quello cioè di costituire una rete di strutture con componenti legati al nuovo che avanzava, capace d’impedire il caos e garantire l’ordine nell’imminenza del trapasso di regime. Ma di questo forse parlerà altro relatore.
Intanto gli eventi incalzano: il 6 settembre il re lascia Napoli e le truppe borboniche si attestano dietro la linea del Volturno, col Garigliano come seconda linea a protezione di Gaeta dov’è rifugiata la famiglia reale. Il 7 settembre Garibaldi giunge in treno a Napoli, si proclama dittatore e conferma L. Romano ministro degli interni. La travolgente avanzata di Garibaldi e la sua entrata a Napoli il 7 settembre 1860 mettono in allarme le cancellerie europee, soprattutto quella francese: si teme che nel mezzogiorno d’Italia prevalga il partito mazziniano, che nasca un regime repubblicano dai connotati rivoluzionari, sul piano politico e su quello sociale, capace di destabilizzare non solo la penisola (la prossima tappa era con ogni evidenza Roma) e di provocare una nuova guerra con l’Austria, ma di produrre anche pericolosi fenomeni d’ imitazione a causa dei vari irredentismi presenti sulla scena europea (con Garibaldi combattono volontari da tutt’Europa), o quantomeno è quello che fa credere Cavour (il cui rapporto con Garibaldi è sempre stato ambiguo). È necessario, quindi, che qualcuno fermi l’eroe dei due mondi e riporti l’ordine nel mezzogiorno, visto che Francesco ll non ne è capace. L’unica potenza in grado di farlo con successo ed in tempi brevi, per vicinanza geografica e capacità militari, è il Piemonte che riceve l’assenso di Napoleone lll (con il famoso “Buona fortuna ma fate presto”, vero o falso che sia) e quello tacito degli altri Stati europei. L’esercito sabaudo invade le Marche e l’Umbria ed il 18 settembre a Castelfidardo sconfigge le truppe papaline guidate dal generale francese Lamoriciere. Quest’ultimo è colui che ha fornito al re Borbone il piano d’attacco per sconfiggere Garibaldi. Francesco ll sa che deve contrattaccare e riconquistare Napoli. Non può richiudersi tra il fiume , la costa ed i confini dello stato Pontificio, sa che la situazione internazionale non gli è favorevole: solo riconquistando Napoli può costringere le altre potenze a fermare i Piemontesi. La decisione, prima ancora che militare è politica.
Il piano di Lamoriciere prevedeva che le truppe napoletane attestate dietro il Volturno ed a Capua attaccassero S. Maria puntando su Caserta mentre altre forze al comando del gen. svizzero von Mechel, avrebbero dovuto attaccare le postazioni garibaldine ai ponti della Valle ed a Maddaloni, prendendo alle spalle Caserta e S. Maria. Sulla carta il piano sembrava ragionevole ed anche elegante con un’ampia e lunga manovra di avvolgimento che avrebbe consentito di sfondare a Maddaloni e prendere le truppe garibaldine alle spalle. Di fatto, le lunghe distanze rendevano difficili i collegamenti ed il coordinamento tra le unità militari e la necessità di sincronizzare l’attacco, ritardò di parecchi giorni lo stesso. Ciò consentì a Garibaldi che aveva intuito la manovra, di predisporre opere di difesa nei punti nevralgici e di rafforzarsi facendo affluire nuove truppe. Condotto cinque o sei giorni prima, l’attacco avrebbe trovato le forze garibaldine ancora impreparate e con scarse riserve. Il comandante borbonico, gen. Ritucci non approvava il piano, ma pressato dalle urgenze e dalle necessità politiche del re, anche se riluttante si apprestò ad eseguirlo. Il giorno 24 ottobre il gen. Mechel al comando dei battaglioni esteri e di frazioni di altri battaglioni, per un totale di 8000 uomini, superato il Volturno, attacca Piedimonte e ne scaccia i garibaldini.Prosegue quindi la sua avanzata e dopo aver guadato il Calore presso Amorosi, con le sue avanguardie il giorno 26 mette in fuga il piccolo distaccamento di garibaldini a Dugenta e si attesta nel territorio compreso tra Melizzano, Dugenta, Frasso, Limatola e Caiazzo.
In pratica le terre dei Gambacorta diventano l’immediata retrovia dell’esercito borbonico, impegnato nell’attacco ai ponti della Valle. Il 1° ottobre 1860 Mechel divide le sue forze, trattenendo con se i reggimenti esteri (circa 3000 uomini tra Bavaresi e Svizzeri) e punta nella direzione di Maddaloni, affidando al col. Ruiz de Ballesteros le restanti truppe (5000 soldati), col compito di marciare verso Caserta Vecchia dove avrebbe dovuto attendere nuovi ordini. Il col. Ruiz punta sulla direttiva Limatola-Castel Morrone, dove viene trattenuto fino al pomeriggio dall’eroica resistenza dei garibaldini (300 uomini) sul monte Castello, tra le rovine della vecchia fortezza medievale. I volontari si battono con onore e, rimasti a corto di munizioni, fanno rotolare sugli attaccanti pietre e massi. Alla fine i borbonici prevalgono e nella lotta muore il comandante garibaldino, l’eroe Pilade Bronzetti.
Ai ponti della Valle, nel frattempo, dopo lunga e serrata battaglia, il Mechel riesce a conquistare l’acquedotto respingendo le truppe garibaldine. Particolare toccante: il generale svizzero, durante la battaglia scorge il cadavere del figlio, Emilio, giovane tenente caduto eroicamente nella lotta. Il padre si ferma a compiangere la morte del figlio e poi prosegue al grido di “Vive le Roi”. Le truppe borboniche sono riuscite a prendere i ponti della Valle, ma hanno combattuto duramente per ore e sono spossate. Per mantenere le posizioni e proseguire nell’avanzata sono necessarie truppe fresche, ma non vi sono riserve: appare chiaro che è stato un errore dividere le forze.
Mechel manda richieste pressanti al Ruiz perché porti immediatamente i suoi soldati ai ponti della Valle, ma i collegamenti si sono persi e le staffette non riescono a trovare la colonna del Ruiz. Di fronte al contrattacco garibaldino portato con le riserve fresche, il Mechel è costretto a ritirarsi ed a riparare ad Amorosi ed a Dugenta. Preso Castel Morrone intanto, la colonna del Ruiz giunge con le sue avanguardie a Caserta Vecchia e si attesta per la notte. Il Ruiz, il cui atteggiamento è sembrato fin dall’inizio attendista e titubante, saputo all’alba del 2 l’esito della battaglia dei ponti della Valle e dell’attacco a Santa Maria, si ritira verso Limatola per poi rifugiarsi a Caiazzo. Il maggiore Nicoletti invece che comanda l’avanguardia attestata a Caserta Vecchia, pressato dai suoi stessi soldati che chiedono di battersi, s’impegna con successo in combattimento coi garibaldini e giunge fino ai sobborghi di Caserta, portandosi fino al parco della Reggia. Contrastato però da forze esorbitanti, manda a chiedere rinforzi al Ruiz, ma questi, che ha già cominciato la ritirata, li rifiuta giudicando sconsiderata l’azione del Nicoletti e timoroso di salvaguardare le forze a lui affidate .Il maggiore allora si ritira combattendo, ma soverchiato da forze nemiche viene circondato e fatto prigioniero insieme a 2000 soldati.
Da Capua, la mattina del 1°ottobre era stato sferrato l’attacco verso Santa Maria, S. Tammaro e S. Angelo in Formis, per puntare su Caserta. La lotta continua per l’intera giornata su tutto il fronte con alterne fortune: Garibaldi si muove su tutta la linea, incita e rianima i suoi, utilizza con oculatezza le riserve, portando addirittura truppe fresche col treno da Caserta e da Napoli verso Santa Maria (una novità per l’epoca), senza spossarle con lunghe marce di trasferimento. Ordina a Bixio di resistere fino alla morte ai ponti della Valle, perché è lì che si decideranno le sorti della battaglia. Qualcuno, in seguito, ribattezzerà lo scontro intorno all’acquedotto come le nuove Termopili. Lo sfondamento ai ponti della Valle non riesce, ed anche sugli altri fronti le truppe borboniche si ritirano sulle loro posizioni, dopo una lunga giornata di lotta infruttuosa, stanche e demoralizzate. Intanto a Frasso, una richiesta di pane da parte delle truppe regie, pena “sacco e fuoco” se non evasa, fa credere ai filo borbonici che le sorti della battaglia pendano in favore di Francesco ll. Si sviluppa subito una piccola rivolta capeggiata dall’arciprete Saquella, vengono arrestati alcuni liberali ed il paese si riempe di bandiere gigliate. L’ordine, però, viene prontamente ristabilito il 2 ottobre dal distaccamento di una colonna di volontari garibaldini, i Cacciatori irpini, proveniente da Torrecuso e comandati dal capitano Francesco De Nunzio, che nel suo diario riporta l’episodio. I prigionieri vengono liberati, la Guardia nazionale rinfrancata e l’arciprete Saquella arrestato e tradotto con altri in catene a Montesarchio. E il popolo festante scende in strada al grido di “Viva Garibaldi, Viva l’Italia”. Intanto, saputo della rivolta di Frasso, una colonna di soldati borbonici si muove da Caiazzo per portar soccorso ai reazionari, con l’intenzione di attraversare il Calore sul ponte Maria Cristina per dirigersi sul paese. Avvertiti della cosa, i Cacciatori irpini prontamente prendono il controllo del ponte ed i borbonici, si ritirano.
L’episodio della rivolta è, tutto sommato, poco più che folcloristico ma contiene in sé due piccoli insegnamenti morali: il primo è che i cambiamenti d’opinione in politica sono spesso repentini ed il secondo che la tendenza guerrafondaia dei preti, a Frasso, è un’antica consuetudine.
Meno folcloristico fu però il trapasso dal vecchio al nuovo regime che portò con sé, come corollario, la più lunga, sanguinosa e feroce guerra del nostro Risorgimento. Una terribile guerra civile, passata sotto il nome di lotta al Brigantaggio. È un fenomeno, quest’ultimo, endemico e ricorrente, ma che in quegli anni riconosce la sua genesi nella storia e nella struttura della società meridionale e nell’impatto che su di esse ebbe il processo unitario e di come questa difficile interazione fu gestita dalle classi dirigenti meridionali e dal governo del nuovo Stato Unitario.
La società meridionale presentava stratificazioni consolidate: vi era l’aristocrazia parassitaria, e la borghesia terriera formata dai padroni, proprietari e latifondisti (da questa stessa classe derivava anche la borghesia professionale: avvocati, medici, giudici,professori etc.). Poca e scarsa la borghesia industriale, che si fondava su imprese che sopravvivevano soprattutto grazie ad una politica protezionistica di forti dazi doganali, anche se non mancavano alcune eccellenze, ed infine le masse contadine, padrone di nulla, forse neanche delle loro anime.
Da sempre nel Sud fenomeni di violenta ribellione sociale avevano caratterizzato i rapporti tra la classe dominante dei padroni e le masse contadine. Quest’ultime erano tenute in una condizione di servitù feudale mentre le prime vivevano nel terrore di cicliche e sanguinose “jacqueries”. I briganti erano criminali comuni o gente che sfuggiva alla giustizia a causa di una vendetta privata o perché rovinati dai debiti, o contadini che cercavano di sbarcare il lunario durante i lunghi mesi dopo un lavoro stagionale. La Nuova Italia si presentò agli occhi dei poveri e dei diseredati sotto forma di nuove tasse (andava ripianato il debito pubblico), leva obbligatoria, spoliazione dei beni della chiesa e soprattutto la mancata partizione delle terre demaniali, da sempre attesa, promessa dallo stesso Garibaldi e mai realizzata. Queste terre in realtà finirono nelle mani dei vecchi latifondisti o in quelle della nuova classe dirigente, formata da borghesi liberali che grazie al favore del governo ebbe accesso a ricchezza , carriere e potere. Si venne a saldare così, sulla pelle dei contadini, una sorta di santa alleanza tra la vecchia e nuova classe dirigente, che se si divideva sui problemi politici, magari in conservatori e radicali, era invece saldamente unita per quanto riguarda la questione sociale.
Fu così che nel brigantaggio noi ritroviamo di tutto: criminali comuni ed idealisti, lealisti borbonici e garibaldini delusi, soldati sbandati e renitenti alla leva, balordi e contadini affamati. Anche le finalità erano diverse: dalla vendetta, alla lotta contro l’invasore, dal furto e dal sequestro alla necessità di sfuggire a una vita di stenti e di miserie. Le modalità delle loro azioni erano caratterizzate da furti, sequestri per riscatto, omicidi, scontri armati con l’esercito.
Dall’altra parte, a fianco dell’esercito a combattere il brigantaggio c’è la Guardia Nazionale. Anche questa è un’accolita d’idealisti ed opportunisti non sempre affidabile ed a volte infiltrata da individui tutt’altro che raccomandabili, spesso vista come occasione per acquisire potere e benemerenze. Sarà un caso, ma nel secondo elenco della G.N. da noi ritrovato vi appaiono in gran numero possidenti e proprietari, quasi a significare che lo scontro che si svolge, non è solo quello tra chi difende la legge e chi l’infrange, non è il solito stereotipo tra guardie e ladri, ma è lotta di classe tra chi ha fame di terra e chi questa terra la possiede. E proprio alla luce di questo e di quanto accade all’indomani dell’unificazione, si intuisce il disegno di Liborio Romano nell’atto di costituire la G.N. Quello di creare uno strumento che nel marasma del cambio di regime, a fianco di Garibaldi e del Piemonte, garantisse la sicurezza, ma soprattutto l’ordine sociale.
Spicca ed è protagonista a Frasso, in questo scontro epico, una figura emblematica: quella di Cosmo Gisondi. La sua vita e i suoi scritti ce lo fanno apparire come un idealista: avvocato e proprietario terriero, padre di sette figli, per le sue idee politiche soffre persecuzione e carcere da parte dei Borbone. Dopo l’Unità d’Italia diviene sindaco e consigliere provinciale. Guida la G.N. in scontri a fuoco contro i briganti. È minacciato di morte da questi che gli sequestrano due coloni per i quali paga un riscatto, sfugge fortunosamente a un agguato. Denuncia l’inefficienza e la corruzione delle strutture territoriali deputate a combattere il brigantaggio. Ufficiali e sottufficiali dell’esercito, dei carabinieri e pubblici funzionari. È da questi, a sua volta, accusato di collusione con i briganti. Viene carcerato, subisce un processo e viene assolto. Una figura quasi da epopea western, avrebbe meritato di essere interpretato da attori del calibro di J. Wayne.
Un’ultima parola sulle donne dei briganti: esse sono le mogli, le amanti e le fidanzate dei briganti. Anche dai documenti appaiono fedeli e coerenti al loro ruolo, e questo getta forse una luce diversa sugli stessi briganti. Essi sono sempre dipinti come figure torve, feroci e sanguinarie. Ma chi ha mogli, figli o amanti, forse ha anche dei sentimenti, forse non è un’anima completamente persa.
Sergio De Fortuna
*1 Intervento svolto il 28 agosto 2010, in occasione della presentazione della mostra Dal Volturno al Taburno, da Terra di Lavoro a provincia di Benevento, dall'assessore alla cultura del comune di Frasso Telesino dr Sergio De Fortuna
Tutto comincia con lo sbarco dei garibaldini a Marsala l’11 maggio 1860. Il 31 maggio capitola Palermo: la Sicilia è in mano a Garibaldi. Francesco ll tenta di recuperare consensi e sostegno in extremis: il 25 giugno concede la costituzione e forma un governo costituzionale presieduto da Antonio Spinelli con ministro dell’interno Liborio Romano. Personaggio, quest’ultimo, dalle mille sfaccettature: ministro borbonico, verrà poi confermato nella carica dallo stesso Garibaldi al suo arrivo a Napoli.
Il 5 luglio Liborio Romano istituisce la Guardia Nazionale, trasformando la vecchia Guardia Urbana. A Frasso, 20 giorni dopo, il 25 luglio nasce la G.N.; ne fa fede il verbale della sua costituzione da noi ritrovato. La datazione conferma che si tratta di un’istituzione borbonica e che la Campania è ancora sotto il controllo dell’esercito di Francesco II. Nel leggerlo però non possiamo non provare un senso di stupore: tra i nomi dei componenti vi è quello di un noto dissidente, di un liberale antiborbonico che per queste sue idee ha patito persecuzione e carcere: si tratta dell’avv. Cosmo Gisondi, liberale, possidente e padre di sette figli. È come se nella G.N. americana, dopo l’11 settembre fosse stato arruolato un noto simpatizzante di Al-Quaida, per giunta già condannato e imprigionato.
Nasce qui il primo elemento di riflessione: com’è possibile che un simile personaggio si ritrovi in una struttura destinata a supportare il regime borbonico, da lui avversato e dal quale è stato perseguitato, proprio nel momento in cui tale regime sta clamorosamente disgregandosi e la coerenza ai suoi ideali potrebbe invece, in un imminente futuro, procurargli solo vantaggi?E di che tendenze politiche sono gli altri componenti della G.N. di Frasso? Che rapporti c’erano tra Cosmo Gisondi e gli ambienti liberali napoletani? Non lo sappiamo, ma sappiamo che la G.N. di Frasso e quelle di tutti i territori poi controllati dai garibaldini passarono al loro fianco, ma forse non fu una questione di opportunismo politico: forse c’era un disegno dietro, elaborato da Liborio Romano, quello cioè di costituire una rete di strutture con componenti legati al nuovo che avanzava, capace d’impedire il caos e garantire l’ordine nell’imminenza del trapasso di regime. Ma di questo forse parlerà altro relatore.
Intanto gli eventi incalzano: il 6 settembre il re lascia Napoli e le truppe borboniche si attestano dietro la linea del Volturno, col Garigliano come seconda linea a protezione di Gaeta dov’è rifugiata la famiglia reale. Il 7 settembre Garibaldi giunge in treno a Napoli, si proclama dittatore e conferma L. Romano ministro degli interni. La travolgente avanzata di Garibaldi e la sua entrata a Napoli il 7 settembre 1860 mettono in allarme le cancellerie europee, soprattutto quella francese: si teme che nel mezzogiorno d’Italia prevalga il partito mazziniano, che nasca un regime repubblicano dai connotati rivoluzionari, sul piano politico e su quello sociale, capace di destabilizzare non solo la penisola (la prossima tappa era con ogni evidenza Roma) e di provocare una nuova guerra con l’Austria, ma di produrre anche pericolosi fenomeni d’ imitazione a causa dei vari irredentismi presenti sulla scena europea (con Garibaldi combattono volontari da tutt’Europa), o quantomeno è quello che fa credere Cavour (il cui rapporto con Garibaldi è sempre stato ambiguo). È necessario, quindi, che qualcuno fermi l’eroe dei due mondi e riporti l’ordine nel mezzogiorno, visto che Francesco ll non ne è capace. L’unica potenza in grado di farlo con successo ed in tempi brevi, per vicinanza geografica e capacità militari, è il Piemonte che riceve l’assenso di Napoleone lll (con il famoso “Buona fortuna ma fate presto”, vero o falso che sia) e quello tacito degli altri Stati europei. L’esercito sabaudo invade le Marche e l’Umbria ed il 18 settembre a Castelfidardo sconfigge le truppe papaline guidate dal generale francese Lamoriciere. Quest’ultimo è colui che ha fornito al re Borbone il piano d’attacco per sconfiggere Garibaldi. Francesco ll sa che deve contrattaccare e riconquistare Napoli. Non può richiudersi tra il fiume , la costa ed i confini dello stato Pontificio, sa che la situazione internazionale non gli è favorevole: solo riconquistando Napoli può costringere le altre potenze a fermare i Piemontesi. La decisione, prima ancora che militare è politica.
Il piano di Lamoriciere prevedeva che le truppe napoletane attestate dietro il Volturno ed a Capua attaccassero S. Maria puntando su Caserta mentre altre forze al comando del gen. svizzero von Mechel, avrebbero dovuto attaccare le postazioni garibaldine ai ponti della Valle ed a Maddaloni, prendendo alle spalle Caserta e S. Maria. Sulla carta il piano sembrava ragionevole ed anche elegante con un’ampia e lunga manovra di avvolgimento che avrebbe consentito di sfondare a Maddaloni e prendere le truppe garibaldine alle spalle. Di fatto, le lunghe distanze rendevano difficili i collegamenti ed il coordinamento tra le unità militari e la necessità di sincronizzare l’attacco, ritardò di parecchi giorni lo stesso. Ciò consentì a Garibaldi che aveva intuito la manovra, di predisporre opere di difesa nei punti nevralgici e di rafforzarsi facendo affluire nuove truppe. Condotto cinque o sei giorni prima, l’attacco avrebbe trovato le forze garibaldine ancora impreparate e con scarse riserve. Il comandante borbonico, gen. Ritucci non approvava il piano, ma pressato dalle urgenze e dalle necessità politiche del re, anche se riluttante si apprestò ad eseguirlo. Il giorno 24 ottobre il gen. Mechel al comando dei battaglioni esteri e di frazioni di altri battaglioni, per un totale di 8000 uomini, superato il Volturno, attacca Piedimonte e ne scaccia i garibaldini.Prosegue quindi la sua avanzata e dopo aver guadato il Calore presso Amorosi, con le sue avanguardie il giorno 26 mette in fuga il piccolo distaccamento di garibaldini a Dugenta e si attesta nel territorio compreso tra Melizzano, Dugenta, Frasso, Limatola e Caiazzo.
In pratica le terre dei Gambacorta diventano l’immediata retrovia dell’esercito borbonico, impegnato nell’attacco ai ponti della Valle. Il 1° ottobre 1860 Mechel divide le sue forze, trattenendo con se i reggimenti esteri (circa 3000 uomini tra Bavaresi e Svizzeri) e punta nella direzione di Maddaloni, affidando al col. Ruiz de Ballesteros le restanti truppe (5000 soldati), col compito di marciare verso Caserta Vecchia dove avrebbe dovuto attendere nuovi ordini. Il col. Ruiz punta sulla direttiva Limatola-Castel Morrone, dove viene trattenuto fino al pomeriggio dall’eroica resistenza dei garibaldini (300 uomini) sul monte Castello, tra le rovine della vecchia fortezza medievale. I volontari si battono con onore e, rimasti a corto di munizioni, fanno rotolare sugli attaccanti pietre e massi. Alla fine i borbonici prevalgono e nella lotta muore il comandante garibaldino, l’eroe Pilade Bronzetti.
Ai ponti della Valle, nel frattempo, dopo lunga e serrata battaglia, il Mechel riesce a conquistare l’acquedotto respingendo le truppe garibaldine. Particolare toccante: il generale svizzero, durante la battaglia scorge il cadavere del figlio, Emilio, giovane tenente caduto eroicamente nella lotta. Il padre si ferma a compiangere la morte del figlio e poi prosegue al grido di “Vive le Roi”. Le truppe borboniche sono riuscite a prendere i ponti della Valle, ma hanno combattuto duramente per ore e sono spossate. Per mantenere le posizioni e proseguire nell’avanzata sono necessarie truppe fresche, ma non vi sono riserve: appare chiaro che è stato un errore dividere le forze.
Mechel manda richieste pressanti al Ruiz perché porti immediatamente i suoi soldati ai ponti della Valle, ma i collegamenti si sono persi e le staffette non riescono a trovare la colonna del Ruiz. Di fronte al contrattacco garibaldino portato con le riserve fresche, il Mechel è costretto a ritirarsi ed a riparare ad Amorosi ed a Dugenta. Preso Castel Morrone intanto, la colonna del Ruiz giunge con le sue avanguardie a Caserta Vecchia e si attesta per la notte. Il Ruiz, il cui atteggiamento è sembrato fin dall’inizio attendista e titubante, saputo all’alba del 2 l’esito della battaglia dei ponti della Valle e dell’attacco a Santa Maria, si ritira verso Limatola per poi rifugiarsi a Caiazzo. Il maggiore Nicoletti invece che comanda l’avanguardia attestata a Caserta Vecchia, pressato dai suoi stessi soldati che chiedono di battersi, s’impegna con successo in combattimento coi garibaldini e giunge fino ai sobborghi di Caserta, portandosi fino al parco della Reggia. Contrastato però da forze esorbitanti, manda a chiedere rinforzi al Ruiz, ma questi, che ha già cominciato la ritirata, li rifiuta giudicando sconsiderata l’azione del Nicoletti e timoroso di salvaguardare le forze a lui affidate .Il maggiore allora si ritira combattendo, ma soverchiato da forze nemiche viene circondato e fatto prigioniero insieme a 2000 soldati.
Da Capua, la mattina del 1°ottobre era stato sferrato l’attacco verso Santa Maria, S. Tammaro e S. Angelo in Formis, per puntare su Caserta. La lotta continua per l’intera giornata su tutto il fronte con alterne fortune: Garibaldi si muove su tutta la linea, incita e rianima i suoi, utilizza con oculatezza le riserve, portando addirittura truppe fresche col treno da Caserta e da Napoli verso Santa Maria (una novità per l’epoca), senza spossarle con lunghe marce di trasferimento. Ordina a Bixio di resistere fino alla morte ai ponti della Valle, perché è lì che si decideranno le sorti della battaglia. Qualcuno, in seguito, ribattezzerà lo scontro intorno all’acquedotto come le nuove Termopili. Lo sfondamento ai ponti della Valle non riesce, ed anche sugli altri fronti le truppe borboniche si ritirano sulle loro posizioni, dopo una lunga giornata di lotta infruttuosa, stanche e demoralizzate. Intanto a Frasso, una richiesta di pane da parte delle truppe regie, pena “sacco e fuoco” se non evasa, fa credere ai filo borbonici che le sorti della battaglia pendano in favore di Francesco ll. Si sviluppa subito una piccola rivolta capeggiata dall’arciprete Saquella, vengono arrestati alcuni liberali ed il paese si riempe di bandiere gigliate. L’ordine, però, viene prontamente ristabilito il 2 ottobre dal distaccamento di una colonna di volontari garibaldini, i Cacciatori irpini, proveniente da Torrecuso e comandati dal capitano Francesco De Nunzio, che nel suo diario riporta l’episodio. I prigionieri vengono liberati, la Guardia nazionale rinfrancata e l’arciprete Saquella arrestato e tradotto con altri in catene a Montesarchio. E il popolo festante scende in strada al grido di “Viva Garibaldi, Viva l’Italia”. Intanto, saputo della rivolta di Frasso, una colonna di soldati borbonici si muove da Caiazzo per portar soccorso ai reazionari, con l’intenzione di attraversare il Calore sul ponte Maria Cristina per dirigersi sul paese. Avvertiti della cosa, i Cacciatori irpini prontamente prendono il controllo del ponte ed i borbonici, si ritirano.
L’episodio della rivolta è, tutto sommato, poco più che folcloristico ma contiene in sé due piccoli insegnamenti morali: il primo è che i cambiamenti d’opinione in politica sono spesso repentini ed il secondo che la tendenza guerrafondaia dei preti, a Frasso, è un’antica consuetudine.
Meno folcloristico fu però il trapasso dal vecchio al nuovo regime che portò con sé, come corollario, la più lunga, sanguinosa e feroce guerra del nostro Risorgimento. Una terribile guerra civile, passata sotto il nome di lotta al Brigantaggio. È un fenomeno, quest’ultimo, endemico e ricorrente, ma che in quegli anni riconosce la sua genesi nella storia e nella struttura della società meridionale e nell’impatto che su di esse ebbe il processo unitario e di come questa difficile interazione fu gestita dalle classi dirigenti meridionali e dal governo del nuovo Stato Unitario.
La società meridionale presentava stratificazioni consolidate: vi era l’aristocrazia parassitaria, e la borghesia terriera formata dai padroni, proprietari e latifondisti (da questa stessa classe derivava anche la borghesia professionale: avvocati, medici, giudici,professori etc.). Poca e scarsa la borghesia industriale, che si fondava su imprese che sopravvivevano soprattutto grazie ad una politica protezionistica di forti dazi doganali, anche se non mancavano alcune eccellenze, ed infine le masse contadine, padrone di nulla, forse neanche delle loro anime.
Da sempre nel Sud fenomeni di violenta ribellione sociale avevano caratterizzato i rapporti tra la classe dominante dei padroni e le masse contadine. Quest’ultime erano tenute in una condizione di servitù feudale mentre le prime vivevano nel terrore di cicliche e sanguinose “jacqueries”. I briganti erano criminali comuni o gente che sfuggiva alla giustizia a causa di una vendetta privata o perché rovinati dai debiti, o contadini che cercavano di sbarcare il lunario durante i lunghi mesi dopo un lavoro stagionale. La Nuova Italia si presentò agli occhi dei poveri e dei diseredati sotto forma di nuove tasse (andava ripianato il debito pubblico), leva obbligatoria, spoliazione dei beni della chiesa e soprattutto la mancata partizione delle terre demaniali, da sempre attesa, promessa dallo stesso Garibaldi e mai realizzata. Queste terre in realtà finirono nelle mani dei vecchi latifondisti o in quelle della nuova classe dirigente, formata da borghesi liberali che grazie al favore del governo ebbe accesso a ricchezza , carriere e potere. Si venne a saldare così, sulla pelle dei contadini, una sorta di santa alleanza tra la vecchia e nuova classe dirigente, che se si divideva sui problemi politici, magari in conservatori e radicali, era invece saldamente unita per quanto riguarda la questione sociale.
Fu così che nel brigantaggio noi ritroviamo di tutto: criminali comuni ed idealisti, lealisti borbonici e garibaldini delusi, soldati sbandati e renitenti alla leva, balordi e contadini affamati. Anche le finalità erano diverse: dalla vendetta, alla lotta contro l’invasore, dal furto e dal sequestro alla necessità di sfuggire a una vita di stenti e di miserie. Le modalità delle loro azioni erano caratterizzate da furti, sequestri per riscatto, omicidi, scontri armati con l’esercito.
Dall’altra parte, a fianco dell’esercito a combattere il brigantaggio c’è la Guardia Nazionale. Anche questa è un’accolita d’idealisti ed opportunisti non sempre affidabile ed a volte infiltrata da individui tutt’altro che raccomandabili, spesso vista come occasione per acquisire potere e benemerenze. Sarà un caso, ma nel secondo elenco della G.N. da noi ritrovato vi appaiono in gran numero possidenti e proprietari, quasi a significare che lo scontro che si svolge, non è solo quello tra chi difende la legge e chi l’infrange, non è il solito stereotipo tra guardie e ladri, ma è lotta di classe tra chi ha fame di terra e chi questa terra la possiede. E proprio alla luce di questo e di quanto accade all’indomani dell’unificazione, si intuisce il disegno di Liborio Romano nell’atto di costituire la G.N. Quello di creare uno strumento che nel marasma del cambio di regime, a fianco di Garibaldi e del Piemonte, garantisse la sicurezza, ma soprattutto l’ordine sociale.
Spicca ed è protagonista a Frasso, in questo scontro epico, una figura emblematica: quella di Cosmo Gisondi. La sua vita e i suoi scritti ce lo fanno apparire come un idealista: avvocato e proprietario terriero, padre di sette figli, per le sue idee politiche soffre persecuzione e carcere da parte dei Borbone. Dopo l’Unità d’Italia diviene sindaco e consigliere provinciale. Guida la G.N. in scontri a fuoco contro i briganti. È minacciato di morte da questi che gli sequestrano due coloni per i quali paga un riscatto, sfugge fortunosamente a un agguato. Denuncia l’inefficienza e la corruzione delle strutture territoriali deputate a combattere il brigantaggio. Ufficiali e sottufficiali dell’esercito, dei carabinieri e pubblici funzionari. È da questi, a sua volta, accusato di collusione con i briganti. Viene carcerato, subisce un processo e viene assolto. Una figura quasi da epopea western, avrebbe meritato di essere interpretato da attori del calibro di J. Wayne.
Un’ultima parola sulle donne dei briganti: esse sono le mogli, le amanti e le fidanzate dei briganti. Anche dai documenti appaiono fedeli e coerenti al loro ruolo, e questo getta forse una luce diversa sugli stessi briganti. Essi sono sempre dipinti come figure torve, feroci e sanguinarie. Ma chi ha mogli, figli o amanti, forse ha anche dei sentimenti, forse non è un’anima completamente persa.
Sergio De Fortuna
*1 Intervento svolto il 28 agosto 2010, in occasione della presentazione della mostra Dal Volturno al Taburno, da Terra di Lavoro a provincia di Benevento, dall'assessore alla cultura del comune di Frasso Telesino dr Sergio De Fortuna